Ricette ischitane
SAPORI TRADIZIONALI IN CUCINA: IL POMODORO
“Pomodoro, pomodoro ricco nasce e ricco muore” “Pomodoro mio cortese, ti ho aspettato per un anno intero, ti aspetto per un altro mese e poi ti mangio per tre mesi”.
Questi proverbi ischitani raccontano con efficacia l’importanza di un frutto della terra sempre buono dall’inizio alla fine della sua lunga stagione, da luglio fino all’autunno, come spiega il primo detto. Il pomodoro, estremamente versatile in cucina sia crudo che cotto, era atteso con pazienza, finché il suo prezzo era abbordabile anche per chi non lo coltivava direttamente - come racconta la seconda filastrocca. E poi, era grazie al sole dell’estate che si otteneva la conserva: prima si faceva evaporare l’acqua in eccesso esponendo ai caldissimi raggi i pomodori tagliati a metà, quindi li si passava per un setaccio e si poneva di nuovo al sole per giorni la polpa ottenuta, fino a ricavare una densa conserva, saporitissima, condimento indispensabile di piatti come la pasta e fagioli, il ragù, il coniglio all’ischitana.
LA FESTA DEL MAIALE
Del maiale non si buttava niente per davvero e a parenti ed amici che accorrevano per aiutare si dava ‘u segn ‘e puorc’, cioè un segno che il maiale era stato macellato: a secondo del grado di parentela e del livello di confidenza si regalavano due costolette, un po’ di sanguinaccio, un pezzetto di capocollo, delle salsicce. Tutto il ricavato del maiale durava fino al giorno di Carnevale (l’indomani iniziava la Quaresima), quando si mangiavano gli ultimi pezzi di carne sotto sale e le ‘cotne’ (cotenne) imbottite.
La pelle del maiale, conservata appunto nel sale, veniva sciacquata e ammorbidita, imbottita con briciole di pane, uva passa, pinoli e prezzemolo, arrotolata e cotta nel sugo con un filo d’olio. Dopo “si piangeva”, poiché almeno fino al giorno di San Martino (a novembre, quando si abbatteva l’animale) non si sarebbe più potuta gustarne la carne.
Col maiale si facevano anche tutta una serie di salumi: prosciutti, pancetta, guanciale, capocollo, salsicce affumicate. La carne che serviva per il prosciutto veniva salata e poi, insieme al resto dei salumi, si metteva “sotto carica” (cioè sotto un grosso masso) in un luogo fresco e asciutto per quaranta giorni, trascorsi i quali si lavava per togliere il sale in eccesso e si appendeva in cucina, in modo che il fumo del focolare, colmo di aromi di ciò che giorno dopo giorno si mangiava, e il venticello che proveniva dalla finestrella che di solito c’era in tutte le cucine, lo stagionavano conferendogli un sapore unico.
DOLCI DELIZIE: UVA PASSA, MOSTARDA D’UVA E FICHI SECCHI
Queste prelibatezze si preparavano sempre grazie alla forza del sole. Dopo aver immerso per qualche secondo i grappoli nell’acqua bollente, gli acini dell’uva detta “cugliunara”, molto grandi, venivano staccati uno ad uno ed esposti al sole, anche se spesso era necessario completare il processo di essiccazione facendoli riposare dentro il forno riscaldato e poi spento.
L’uva passa, così ottenuta, si accostava a piatti dolci e salati, come il dolce tipico di Carnevale, il migliaccio, gli involtini di carne, la pizza di scarola. Con l’uva tardiva si preparava anche la ‘mostarda’, una specie di marmellata, che si spalmava sul pane o si adoperava al posto del vino cotto. Si passava l’uva sul setaccio per togliere ‘i nozzoli’ (i semi) e la buccia. La polpa ottenuta bolliva fin quando non si riduceva ad un terzo della quantità iniziale. Si metteva sotto vetro coperta con un filo di alcool per garantire la conservazione, oppure si facevano nuovamente bollire i barattoli.
Durante la cottura non si aggiungeva zucchero poiché l’ultima uva era già molto dolce; spesso però, a metà cottura, si buttavano nella pentola delle mele cotogne intere per trasferirne l’aroma alla mostarda. E le mele cotte, impregnate di mostarda, erano una vera delizia per il palato. I fichi, invece, si tagliavano a metà per poi esporli al sole dentro una “nassella”, un cesto basso realizzato intrecciando steli di ginestra. Si giravano di tanto in tanto fino a che non fossero asciutti e poi si univano a due a due insieme ad una foglia di alloro che li profumava.
LE VICCHIARELLE
Il dolce tipico di Carnevale erano le ‘vicchiarelle’. Una leggenda narra che un giorno una povera donna non avesse niente da mangiare ma, a forza di cercare in tutti gli angoli della casa, trovò un mucchietto di farina. La impastò con acqua e un pizzico di sale e poi calò questa pastella nell’olio caldo, formando dei piccoli cilindri, che chiamò ‘vicchiarelle’, perché lei stessa era una vecchina. Questi dolci, di solito, venivano immersi nello zucchero prima di essere gustati.
IL VINO COTTO
Il mosto di vino rosso appena pronto si faceva bollire assai lentamente per ore, in modo che si riducesse e gli zuccheri si concentrassero. Una volta imbottigliato, entrava in ricette come quella della pizza di scarole e nella preparazione del baccalà.