La Coppa di Nestore: la testimonianza dell’antico connubio tra Ischia e vino
Il legame che ha unito Ischia alla coltivazione dei vigneti è antico e conosce il suo passaggio fondamentale 2700 anni fa, nel primo quarto dell’VIII sec. a.C., quando l’isola diventa protagonista della storia della cultura occidentale. È stato collocato, infatti, al 785 a.C. circa, l’arrivo sulle coste dell’odierna Lacco Ameno di un gruppo di abitanti dell’isola di Eubea, in Grecia. Alla ricerca di nuove terre in cui stabilirsi, essi fondarono Pithecusa, che costituì una testa di ponte della colonizzazione della Magna Grecia. L’insediamento greco nel Meridione è stato un fenomeno che ha influito in maniera profondissima sulla storia economica, politica, culturale, umana della futura Italia, in particolare quella del Sud. I Greci, infatti, portarono un bagaglio di conoscenze, che si diffuse nelle innumerevoli città fondate fra la Sicilia e la Campania, e da lì anche presso le popolazioni indigene, che ebbero costanti rapporti con i nuovi arrivati.
Si andava da tecniche agricole, edilizie e artigianali a forme di governo, a concezioni artistiche, religiose e filosofiche. Non è questa la sede per entrare nei particolari, ma è necessario ricordare almeno la svolta rivoluzionaria costituita dall’invenzione e introduzione dell’alfabeto, una tecnica comodissima e assolutamente vincente di comunicazione, che, a partire dalle colonie greche, e proprio da quella fondata a Ischia, si diffuse immediatamente, per essere adottata dagli Etruschi e di seguito dai Latini e quindi da Roma.
Gli scavi condotti in maniera impeccabile per oltre 40 anni dall’archeologo Giorgio Buchner e dai suoi collaboratori, e lo studio dei reperti ritrovati, hanno fatto di Pithecusa un punto di riferimento imprescindibile per quanti si occupano della Grecità d’Occidente. Oggi, i reperti ritrovati sono esposti al Museo di Pithecusae, che si trova nel comune di Lacco Ameno. Visitando il Museo si può intuire come la nuova colonia fosse molto attiva. Esso, infatti, ospita reperti che documentano la produzione di ceramica e la lavorazione di metalli, e attestano scambi commerciali con tutto il bacino del Mediterraneo (Magna Grecia e Grecia, Etruria, Spagna, Cartagine, Egitto, Siria).
L’isola d’Ischia, offriva, infatti, delle risorse naturali (giacimenti di argilla, legname in quantità, acqua dolce) che furono abilmente sfruttate: non a caso, anche dopo che Pithecusa perse di importanza, in seguito alla fondazione della colonia di Cuma, sulla costa prospiciente l’isola d’Ischia, sono documentate in età ellenistica (IV-II a.C.) interessantissime produzioni pithecusane di vasellame da mensa e di anfore per il trasporto del vino, che gli archeologi hanno rinvenuto in molti siti italiani e non, a testimonianza di un’attività artigianale e commerciale ancora significativa. La vite, infatti, era un elemento centrale della produzione agricola della madrepatria, e i Greci emigrati in Occidente l’hanno portata con sé, insieme alle usanze rituali ad essa collegate. Così, nei corredi funebri rinvenuti nelle tombe non mancano:
• i crateri, cioè i vasi in cui si mescolava l’acqua con il vino (che, infatti, non si beveva puro);
• le oinochoai, brocche in cui si metteva sulla tavola del simposio il vino puro (e con una oinochoe piena di vino si spegneva la pira su cui veniva bruciato il cadavere, secondo il rituale della cremazione, riservato ai Greci adulti, non ai bambini e agli schiavi);
• le coppe (skyphoi, kotylai) nelle quali si beveva la mistura.
Infatti, il momento del simposio - come si chiamava la riunione intorno al cratere pieno di vino che segue il banchetto vero e proprio - era un appuntamento conviviale e sociale fondamentale per i maschi, in cui si conversava, si improvvisavano versi, si assisteva a esibizioni musicali e di danza, si svolgevano giochi fra i convitati, sia di abilità fisica che di intelligenza.
Ebbene, una tomba della necropoli di Pithecusa ha restituito un reperto che racchiude in sé tutti questi elementi. Si tratta di una piccola coppa fabbricata a Rodi, datata alla fine dell’VIII a.C., sulla quale si legge un graffito disposto su 3 righe, sicuramente eseguito a Pithecusa (come testimonia la particolare forma di alcune delle lettere utilizzate). Il testo, realizzato con grafia sicura, è in versi (metro giambico ed esametri epici) e recita: “La coppa di Nestore era certo ottima per berci, ma chiunque beva da questa coppa subito sarà preso dal desiderio della ben coronata Afrodite”.
Si tratta di un reperto di eccezionale importanza, per molteplici ragioni: i versi della “coppa di Nestore” (come è ormai conosciuta) rappresentano uno dei più antichi documenti di scrittura alfabetica greca giunto fino a noi, e il primo frammento noto di poesia dei tempi di Omero, conservato nella sua stesura originale (e non tramandato attraverso papiri, codici, ecc. redatti in epoca posteriore, come accade di solito), contemporanea alla composizione dei versi.
La breve poesia è scherzosa: stabilisce, infatti, un confronto fra la vera coppa posseduta dall’eroe greco Nestore (fatta in oro e pesantissima), di cui parlano i poemi omerici, e la modesta kotyle che reca i versi. Questa, tuttavia, ha il potere, secondo lo sconosciuto estensore del testo, di far innamorare di Afrodite in persona chi berrà da essa.
Notevolissime quindi, le implicazioni culturali: si tratta probabilmente di versi composti proprio durante un simposio (alcuni propongono che sia il frutto di un gioco, per cui due o più convitati hanno redatto il testo in una sorta di “sfida poetica”), e in ogni caso testimoniano la profonda dimestichezza che già alla fine dell’VIII a.C. si aveva, in una lontana colonia dell’Italia meridionale, non solo con la scrittura (adoperata in questo caso per scopi non pratici e commerciali), ma anche con quelli che sono uno dei capisaldi culturali della Grecità, i poemi omerici, appunto.